Tra”patrimonio dell’emigrazione italiana e migrazioni odierne”
P. Lorenzo Prencipe, presidente del Centro Studi Emigrazione Roma, lo scorso 6 dicembre ha partecipato all’incontro organizzato dall’On. Fabio Porta dal titolo “Migrazioni e formazione interculturale. Il patrimonio storico, culturale ed etico dell’emigrazione italiana nel mondo”
Durante il suo intervento P. Lorenzo Prencipe, dopo aver ringraziato l’On. Fabio Porta per l’invito, ha detto che, nel quadro della proposta di legge sulla “promozione della conoscenza dell’emigrazione italiana nel quadro delle migrazioni contemporanee“, questo incontro offriva l’importante occasione di coniugare l’esperienza e il patrimonio dell’emigrazione italiana nel mondo con gli odierni movimenti migratori e le relazioni interculturali che ne derivano; successivamente ha toccato alcuni aspetti di questa “relazione” tra “patrimonio dell’emigrazione italiana e migrazioni odierne”, che potrebbero motivare indirizzi e iniziative nell’ambito dell’educazione interculturale nella nostra scuola in particolare e nella società in generale.
Di seguito l’intervento integrale:
“Innanzitutto, esplicito il mio punto di vista sulla realtà delle migrazioni facendo mio un invito di papa Francesco del 2018: «Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia.
Io, invece, vi invito a guardarle… come opportunità per costruire un futuro di pace». La mobilità umana è, perciò, il denominatore comune della nostra società, di tutte le società, in un continuo processo di comprensione e interazione tra passato, presente e futuro.
- La memoria del passato (della grande emigrazione italiana) va strutturata non come sterile nostalgia (“di tempi andati”) ma come capacità di cogliere differenze e continuità di una realtà, l’incontro di esseri umani e di popoli, che continua a sfidare il nostro presente e il nostro avvenire. Per esempio, pensando al passato e alla sua valenza per l’attualità, l’odierna paura del migrante acquisirebbe altro peso se ristudiassimo i tempi in cui erano gli italiani a far paura in tutto il mondo… come riportato dalla tristemente famosa relazione sugli immigrati italiani negli USA (Ottobre 1912) dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano, e cito: «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano… Si costruiscono baracche … nelle periferie delle città dove vivono, gli uni sugli altri. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, diventano violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo
agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.
- L’ oggi migratorio continua a parlare di spostamenti umani, di persone che lasciano (o sono costrette a lasciare) i loro paesi con la prospettiva di morire alle frontiere del mondo o di essere rimpatriati o di ingrossare le fila dei cosiddetti “clandestini” nei paesi di arrivo.
L’ oggi migratorio sono anche milioni di persone (italiani e non solo) che continua a cercare lavoro e migliori condizioni di vita altrove e che vive sulla propria pelle i disagi dovuti al lasciare la propria terra, all’arrivo in un altro Paese con lingua, abitudini, cultura, religione diversa, al processo d’inserimento e alla lotta contro le possibili discriminazioni, al cammino verso l’ascesa sociale e professionale, alle nuove amicizie e alla vita sociale, alle relazioni (non sempre pacifiche) plurali, interculturali e interreligiose. - Nel futuro migratorio, la Banca Mondiale prevede che, entro il 2050, i cambiamenti climatici causeranno altri 216 milioni di rifugiati che andranno ad ingrossare le file di quanti fuggono guerre e persecuzioni (ad oggi 110 milioni: di cui 63 milioni sono sfollati all’interno dei loro paesi, in genere a medio e basso reddito). Queste situazioni (passate, presenti e future), legate alle migrazioni, fanno emergere questioni e problematiche sempre più pressanti per le nostre società. Una di queste è la sfida della “convivenza” e dell’educazione interculturale.
- La dimensione interculturale nell’odierna mobilità italiana
Una decina di anni fa, entrando al Vittoriano per visitare l’allora Museo nazionale dell’emigrazione, si veniva accolti dalle parole del Presidente Giorgio Napolitano [citazione]: «…per decenni l’emigrazione ha costituito una fondamentale “valvola di sfogo” per il persistere di gravi difficoltà economiche e sociali, e le rimesse degli emigranti hanno contribuito non poco allo sviluppo dell’Italia. Spesso gli italiani all’estero hanno condotto una vita difficile, di sacrifici e privazioni; ma la cultura del lavoro di cui erano portatori ed i valori in cui credevano hanno infine permesso loro di integrarsi con successo nel tessuto politico, sociale ed economico dei Paesi che li accoglievano…
Oggi, gli italiani all’estero costituiscono uno splendido “biglietto da visita” per l’immagine dell’Italia e contribuiscono in maniera spesso determinante al rafforzamento delle relazioni tra i Paesi di residenza e la madrepatria e alla diffusione della lingua e della cultura italiana».
In realtà, le migliaia di persone, qualificate e meno qualificate, che oggi continuano a scegliere (liberamente o forzosamente) di costruire il proprio futuro oltre l’Italia, per diventare veramente il “biglietto da visita dell’Italia”, auspicato dal presidente Napolitano, devono poter fidarsi dell’Italia, devono cioè poter contare sulla presenza e il sostegno delle istituzioni nazionali, sulla corretta informazione veicolata dai media, sulla vicinanza di una società civile che non li consideri estranei, egocentrici o traditori della patria perché se ne sono andati via.
Attuandosi queste precondizioni, le giovani e i giovani italiani in mobilità saranno di fatto i nuovi “mediatori interculturali”, capaci di articolare in un’identità aperta che, al tempo stesso, è italiana, europea e mondiale. Non si chiuderanno in una sterile difesa delle mono-appartenenze
(linguistiche, regionali o nazionaliste), ma valorizzeranno le occasioni di incontro, scambio e arricchimento reciproco tra persone e paesi diversi.
Vivere la propria cultura (che abbraccia la totalità delle espressioni vitali: dalle arti alla gastronomia, passando per l’economia, la lingua e la dimensione religiosa) come apertura alle culture altre che incontriamo è una delle sfide veicolate dalle mobilità odierne, alla società intera e alla scuola in particolare.
- Per una educazione interculturale
Una società interculturale non è un “mosaico” dove le diverse comunità di lingua, cultura, etnia o religione sono semplicemente sovrapposte, senza interazione. Una società interculturale non può non riconoscere che la sua coesione si fonda sull’accettazione di regole comuni di comunicazione (il linguaggio), su un sistema giuridico comune (il diritto) e sull’impegno comune di educazione interculturale.
Oggi, mentre l’individuo sembra sospinto a diventare sempre più l’uomo caratterizzato dalla pluralità dei riferimenti e dei valori, assistiamo invece al ritorno massiccio del regionalismo, del localismo, dell’affermazione dell’etnicità come categoria sociale discriminante, del nazionalismo, della “guerra di civiltà”. A questa dicotomia risponde l’educazione interculturale.
Secondo l’antropologo Clyde Kluckolm «ogni persona è simile a nessun altro, è simile solo ad alcuni, ed è simile a tutte le altre persone». Oggi, però , è sempre più complesso per l’individuo assumere la sua “unicità identitaria” (ognuno di noi non assomiglia a nessun altro), assumere
la sua “particolarità” (ognuno di noi assomiglia a qualcun altro in forza delle appartenenze collettive: etniche, nazionali, religiose), assumere la sua “universalità” (tutti noi apparteniamo all’unica famiglia umana).
L’educazione interculturale, che riguarda tutti i membri di una società (stranieri ed autoctoni), avviene quando c’è interazione tra persone di culture diverse. In effetti, le nostre difficoltà di coesione non provengono tanto dalle nostre caratteristiche in sé, ma dalla loro differenza e distanza e dalla percezione che abbiamo di tale diversità e distanza. Come affrontarle allora in prospettiva della coesione sociale?
Educare al rapporto implica: 1) comunicazione e relazione interpersonale e intercomunitaria (che considera l’alterità come relazione da costruire e non barriera da fuggire – Levy-Strauss), 2) uno spirito critico delle proprie identità particolari (religiose, nazionali, etniche) e la loro relativizzazione in riferimento 3) all’universale inteso come appartenenza a spazi più ampi (l’uomo, la sua dignità, i suoi diritti fondamentali).
Il ruolo educativo della comunità sociale, famiglia, scuola, religione è quello di aiutare l’uomo ad aprirsi a questa universalità senza far seccare le proprie radici particolari, trovando nuove soluzioni ad un rapporto che, vissuto come alternativo, dovrebbe invece strutturare l’uomo in
maniera globale.
La sfida interculturale consiste nella capacità di pensare e costruire una “società coesa”, fondata non sulla difesa di culture contrapposte o di “identità forti e alternative”, quanto sull’incontro di culture per favorirne relazione e scambio.
Come rispondere alla sfida (non sempre lineare e senza conflitti) della relazione tra identità e differenze?
C’è un duplice errore/scorciatoia da evitare: da un lato, il puro elogio della differenza che rende difficile trovare elementi coesivi per vivere insieme e, dall’altro, rivendicare ed esibire un’identità forte, trovata in una radice che lega al passato in maniera immutabile.
L’identità non è fissa; è una dimensione vitale. L’identità non si costruisce attraverso la ripetizione di sé, né attraverso il richiamo alla propria storia. L’identità sono i fili che tengono insieme le diversità. L’identità è un patto di rispetto reciproco che mette in gioco ogni parte in causa, andando oltre il mosaico di un passato identitario.
Imparare a convivere con le differenze non significa semplicemente ripeterle o affermarle, significa invece aprirle al dibattito, alla critica, al confronto, farne un elemento della nostra identità, che è, sempre, identità plurale, composta essa stessa di differenze.
La sfida identitaria, allora, non è tanto nella ricerca di comuni origini passate, ma nella definizione di quegli orizzonti di senso condivisi in cui oggi si vuole giocare l’esistenza. Si tratta di pensare una nuova appartenenza, una nuova mobilità, nuovi diritti, uno spazio più vasto in cui sentirsi a casa propria tra diversi. L’integrazione non è inclusione in un “intero” già dato e non può essere ridotta all’impossibile richiesta fatta agli immigrati di integrarsi nel nostro passato, ma piuttosto di condividere il nostro futuro comune fatto di valori cercati e accettati insieme, con il contributo
positivo di tutti.
Grazie.
I video integrale dell’intervento: